La questione dell’afflusso delle vocazioni è oggi certamente la preoccupazione maggiore di molte delle nostre comunità. Quelle che hanno numerose vocazioni che permettono un rinnovamento equilibrato si contano oggi sulle dita di una mano. Tuttavia mi sembra importante ricollocare questa questione nel tempo lungo. Il gran problema della maggior parte delle nostre comunità, rifondate dopo la rivoluzione francese, è che hanno conosciuto soltanto una fase ascendente, senza mai vivere un periodo lungo di decrescita. Questo le rende più sensibili allo scoraggiamento. Noi abbiamo l’abitudine di analizzare la vita delle comunità secondo il modello di una crescita economica senza fine. Ora la storia ci insegna che la realtà religiosa assomiglia piuttosto a una alternanza di alcuni alti e molti bassi. Dimentichiamo che i periodi di apparente decadenza sono in effetti crogiuoli di rinnovamento e di maturazione, periodi di trasmissione. La Bibbia non cessa di ripetere che la precarietà può diventare una occasione favorevole. In questo contesto, la questione del modello per affrontare la dura realtà della decrescita è essenziale. Il problema non si riduce alla forma esteriore da adottare, e neppure alle scelte concrete da fare. La cosa più importante è l’attesa implicita che si esprime nelle comunità. (…)

Il desiderio di una esistenza armoniosa, equilibrata, in cui non siano l’economia o il danaro a dettare legge, ma dove siano essenziali la preghiera liturgica, l’ospitalità, una relazione equilibrata con la natura. Il primo aspetto è dunque una esistenza rispettosa dell’umanità dell’uomo nel suo ambiente. Ma questa vita buona non può fiorire se non in un contesto umano autentico, in cui la relazione con l’altro, nella sua duplice dimensione fraterna e filiale, possa essere vissuta. La ricerca di una autentica relazione di paternità-filiazione da una parte, e di vera fraternità dall’altra, è costitutiva di ogni comunità monastica. E’ questo ciò che tanti vengono a cercare oggi nei nostri monasteri: una esperienza di fraternità, e la possibilità di essere generati a se stessi. Questo pone dunque non solo la questione vitale delle relazioni umane, ma egualmente la questione centrale della trasmissione (della tradizione nel senso etimologico della parola, di far passare a un altro, a un’altra generazione, senza tradire) che superano il quadro delle comunità monastiche, perché è un problema che tocca la nostra società nel suo insieme. Per dare e per condividere, bisogna aver ricevuto. (…)

La vita monastica soffre in effetti delle stesse difficoltà della società contemporanea. Ed è interessante per la nostra società perché costituisce un vero laboratorio in cui possono essere sperimentate risposte alle grandi domande del nostro tempo, domande che riguardano fondamentalmente la vita e la felicità dell’uomo. D’altronde è proprio così che san Benedetto guarda alla vocazione monastica nel Prologo della sua Regola, quando pone questa domanda che ci sorprende sempre per la sua straordinaria attualità: Chi è l’uomo che ama la vita e desidera la felicità? La vita monastica è un modo di rispondere a questa domanda, che è in effetti posta a ciascuno di noi. Una domanda che rimane certamente, per ogni essere umano, per ogni monaco, la vera sfida.

Da una Conferenza di dom Guglielmo Jedrezjack, Presidente della Fondation dès monastères (Francia)